Benevento: carcere e fragilità, quando il diritto incontra i più vulnerabili
All’Università degli Studi del Sannio due giornate dedicate a “Donne e minori” e a “L’assistenza sanitaria” nelle carceri
Benevento: carcere e fragilità, quando il diritto incontra i più vulnerabili. All’Università degli Studi del Sannio due giornate dedicate a “Donne e minori” e a “L’assistenza sanitaria” nelle carceri.
Due giornate intense di riflessione e confronto si sono svolte presso l’Università degli Studi del Sannio, martedì 15 e mercoledì 16 luglio. Nella cornice di Palazzo De Simone, si è tenuto il workshop “Carcere e fragilità. Storia, diritto, esperienze”, promosso dal Dipartimento DEMM dell’Università del Sannio nell’ambito del progetto PRIN Punire, emendare, reinserire, con il sostegno dell’Unione Europea e del Ministero dell’Università e della Ricerca.
L’evento ha raccolto docenti, professionisti e studiosi provenienti da tutta Italia per esplorare il rapporto tra carcere, vulnerabilità sociale, sanità e diritti umani, con un focus sulla storia, sul diritto e sulle esperienze penitenziarie.
Prima giornata del workshop: “Donne e Minori” nel sistema penitenziario.
La prima giornata del workshop si è aperta con i saluti istituzionali di Gerardo Canfora, Rettore Unisannio, di Gaetano Natullo, Direttore Dipartimento DEMM e di Cristina Ciancio, responsabile scientifica dell’Unità Locale PRIN e curatrice dell’iniziativa.
La sessione intitolata “Donne e minori”, moderata dalla prof.ssa Giuseppina De Giudici (Storia del diritto medievale e moderno, Università di Cagliari, PI Progetto Prin), ha dato luogo nel pomeriggio a tre interventi di grande intensità, offrendo un approfondimento storico e sociale sulla condizione delle donne e dei minori all’interno delle carceri, con interventi che hanno intrecciato storia del diritto e psicologia.
Gli interventi
La prof.ssa Damigela Hoxha (Storia del diritto medievale e moderno, Università “Alma Mater” di Bologna) ha ripercorso la storia della reclusione femminile nell’Italia preunitaria, analizzando in particolare l’esperienza del “Reclusorio pei Discoli” di Bologna come esempio di disciplinamento sociale.
Così ha risposto alla nostra domanda.
“Nel suo studio è emersa una “moralizzazione” della devianza femminile da parte del sistema penitenziario preunitario. Secondo lei, questa visione ha lasciato un’eredità ancora oggi rintracciabile nel modo in cui la giustizia tratta le donne?”
“Certamente, è il trait d’union che caratterizza la detenzione femminile già dall’Italia preunitaria fino agli odierni reati femminili che sono un po’ sempre declinati sul genere; quindi, c’è sempre questa tendenza a leggere i delitti femminili su una base fortemente legata alla morale.”
La dott.ssa Nadia Esposito, psicologa e dottoranda in Teaching & Learning Sciences (Università di Macerata e Università del Sannio), ha proposto, dal canto suo, un’analisi storica e psicologica delle esperienze delle minorenni nel Riformatorio femminile di Airola tra il 1931 e il 1950, documentando le contraddizioni tra intenti educativi e prassi istituzionali.
A seguire, la prof.ssa Maria Luisa Iavarone (Università Parthenope di Napoli) conosciuta per il suo impegno accademico e civile sui temi della prevenzione e del recupero minorile, ha chiuso la sessione con una riflessione profonda sull’esigenza di un nuovo modello di rieducazione minorile, capace di aprirsi all’ascolto e al cambiamento.
La tavola rotonda, un luogo di dibattito
La prima giornata di workshop si è conclusa con una tavola rotonda, moderata dalla prof.ssa Cristina Ciancio, che ha visto la partecipazione di numerosi esperti, studiosi e rappresentanti istituzionali: Flavio Argirò, penalista Unisannio; Davide Barba, sociologo e criminologo Unisannio; Marco Cavina, storico del diritto Unibo; Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Regione Campania; Giacomo Di Gennaro, sociologo e criminologo; Alessia Di Stefano, storica del diritto Unict; Mario Griffo, processualpenalista Unisannio; Stefano Tangredi, avvocato e presidente comitato regionale Campania, Croce Rossa; Vincenzo Verdicchio, civilista Unisannio e Paola De Palma, giornalista e laureanda in Giurisprudenza.
Durante la discussione, è emerso con forza il bisogno di ripensare il carcere come luogo di responsabilità sociale, capace di riconoscere e affrontare le fragilità di chi lo attraversa. Si è fatto un breve excursus sulla storia della giustizia minorile: dalla paideia degli antichi greci alle carceri minorili dei primi del Novecento. Donne, minori, persone con disabilità o dipendenze: sono questi i volti della fragilità che più spesso restano ai margini della riflessione pubblica.
Seconda giornata del workshop: “L’assistenza sanitaria”
Ad aprire la seconda giornata del workshop è stato il prof. Marco Geri (Storia del diritto medievale e moderno, Università di Pisa), con un intervento incentrato sulla figura di Carlo Morelli, politico medico penitenziario nella Toscana del XIX secolo. Attraverso documenti d’archivio (tra cui quelli dello stesso dottor Morelli, con più di 2000 lettere inviate a giuristi italiani e stranieri), il professor Geri ha illustrato come la salute del detenuto fosse uno strumento di controllo, rivelando una tensione persistente tra sorveglianza e cura.
È poi intervenuto il prof. Olindo De Napoli ( Storia contemporanea, Università Federico II di Napoli), che ha ricostruito l’evoluzione delle pratiche sanitarie nei sistemi coloniali italiani, soffermandosi sul caso emblematico dell’assistenza medica nella colonia penale di Assab, dove l’assistenza sanitaria veniva amministrata in modo selettivo e spesso punitivo.
Una seconda tavola rotonda
Alle ore 11.30 si è svolta l’ultima tavola rotonda, moderata dalla prof.ssa Cristina Ciancio, già protagonista della giornata precedente. Anche in questa occasione, l’incontro ha dato voce a studiosi e professionisti di vari ambiti, che hanno posto al centro il tema della fragilità sanitaria in carcere come una questione non solo tecnica, ma profondamente etica.
Si è discusso di diritto alla salute come diritto fondamentale, troppo spesso ignorato o disatteso nei contesti detentivi. È emerso chiaramente che, ancora oggi, l’accesso alle cure per le persone private della libertà è fortemente disomogeneo e condizionato da fattori strutturali, geografici e culturali.
I discussants della giornata del 16 luglio: Velia Nobile Mattei, direttrice del carcere di Brissogne, Valle d’Aosta; Nico Salomone, avvocato e Presidente Camera Penale Benevento nonché componente dell’osservatorio carcere dell’UCPI; Vincenzo Casamassima, professore di diritto costituzionale all’Università degli Studi del Sannio); Tommaso Greco, Università di Pisa; Emanuela Ianniciello, Università di Foggia; Lorenzo Leporiere, Università di Bari; Marco Miletti, Università di Foggia; Domenico Arcidiacone, Università di Macerata, Università degli Studi Sannio e Giuseppe Speciale, Università di Catania.
In questa occasione abbiamo intervistato il professor Vincenzo Casamassima, chiedendogli:
“Quanto secondo lei, i principi costituzionali trovino effettivamente un’applicazione reale in un ambito come quello del carcere, che per sua natura tende spesso alla sospensione o al ridimensionamento del diritto? E quanto ancora può offrire il diritto costituzionale nella tutela dei detenuti e in special modo nella loro assistenza sanitaria?”
“Il diritto costituzionale, come ho cercato di spiegare durante l’intervento (ma come hanno detto bene anche gli altri relatori nell’ambito della tavola rotonda tenutasi oggi), sicuramente ha rappresentato una svolta, perché la costituzione del 1948 ha introdotto dei principi.
Da quello del rispetto della dignità della persona in quanto tale a quello dell’eguaglianza, al riferimento espresso al diritto alla salute come diritto fondamentale e ai riferimenti specifici alla condizione dei detenuti che avrebbero dovuto e hanno rappresentato una svolta.
Dico, però, che “avrebbero dovuto” perché dalla relazione di oggi, ho tratto spunti ulteriori rispetto all’impressione che già avevo che l’attuazione di quei principi sconti ancora molti limiti concreti.
Anche il passaggio che si è realizzato dell’assistenza sanitaria in carcere nel quadro del Servizio Sanitario Nazionale, il quale avrebbe dovuto segnare la parificazione non solo simbolica, ma effettiva nel godimento dei diritti e che invece, come abbiamo potuto constatare oggi da alcuni interventi molto interessanti degli altri discussants, che questo effetto positivo si è solo parzialmente realizzato.
Per certi versi nel grande insieme della sanità generale si riscontra addirittura quasi una penalizzazione, un rischio di penalizzazione della sanità penitenziaria fino a far ritenere opportuni interventi rinnovati che diano la possibilità di dare un’attuazione a quei principi costituzionali che tenga conto della realtà effettiva del carcere.
Non basta solo l’affermazione teorica dell’eguaglianza nel godimento dei diritti, se non si vuole correre il rischio dell’ineffettività o per certi versi, di sommare in capo ai detenuti le criticità tipiche della condizione detentiva, alle criticità del Sistema Sanitario Nazionale.
Poiché, data la particolare fragilità dei detenuti, la somma di criticità ad altre criticità se non affrontata seriamente rischia di produrre effetti veramente di sostanziale e di violazione dei diritti”.
Il carcere tra diritto e responsabilità
Con la giornata del 16 luglio si è chiuso un percorso di due giorni che ha dato voce a storie dimenticate, diritti violati e possibilità di cambiamento. Dal tema della reclusione femminile e minorile, affrontato il 15 luglio, a quello della salute in carcere, il convegno ha offerto un quadro ampio e multidisciplinare delle fragilità che attraversano il sistema penale.
In conclusione, emozionante e d’impatto, è stato il discorso dell’organizzatrice dell’evento, la prof.ssa Cristina Ciancio che così si è espressa.
“Con questo workshop spero si possa riuscire a fare emergere i primi spunti di una storia che si snoda tra medicina, psichiatria, diritto, etica, repressione e soluzioni alternative ai problemi della criminalità.
Una storia che si intreccia con quella del difficile ma non impossibile connubio tra cura e punizione, con le proposte di dimensioni normative alternative al paradigma giustizia=vendetta, pena = risarcimento, con la flebile ma “risalente” e “resistente” istanza per un sistema carcerario più concentrato sul recupero che sulla paura, nel progressivo convincimento che abbia veramente senso punire, anche eventualmente con durezza, solo nella misura in cui si crede che ci sia margine per recupero e ravvedimento.
La storia della sanità penitenziaria è storia della ricerca di un equilibrio possibile tra poli estremi, vale a dire tra emenda e punizione, reinserimento e sicurezza, fiducia e vendetta. Speranza e paura.
Nessuno di questi elementi può essere trascurato, e senza pagare un prezzo. È la storia di una sfida in bilico tra quelle che ancora oggi per le nostre democrazie sono due grandi prove di civiltà, quella della giustizia e quella dell’assistenza sanitaria.
Prove già difficili quando si affrontano una alla volta, che diventano anche piene di insidie quando ci si impegna a combinarle, che si rivelano troppo spesso ambigue quando nel farlo si invocano solo esigenze di sicurezza sociale.
E che sono sempre fallite quando non si è riusciti ad uscire dal corto circuito di paure e sfiducia. Per fare ciò abbiamo riunito saperi e competenze diverse qui, all’Università degli Studi del Sannio”.
Paola De Palma