Coronavirus: come funziona l’analisi dei tamponi

Redazione
Coronavirus: come funziona l’analisi dei tamponi
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Quando parliamo dei test per rilevare la presenza del coronavirus in un paziente, parliamo normalmente di quelli che, dopo aver raccolto un campione di saliva o muco del paziente attraverso un cotton fioc passato nel naso o nella bocca, consentono di ricercarne all’interno l’eventuale presenza di materiale genetico (sezioni di RNA) riconducibile al coronavirus.

L’altro tipo di test, di cui si sta parlando in particolare nelle ultime settimane, sono i cosiddetti “sierologici”, che ricercano in una parte del sangue l’eventuale presenza di anticorpi contro il coronavirus, per rilevare se il paziente fosse stato infetto. Per ora ci interessano i primi, quelli ai quali ci si riferisce normalmente quando si parla di tamponi.

Una volta che gli operatori sanitari degli ospedali, delle ASL o degli stessi laboratori hanno raccolto un campione di muco o saliva dal paziente con il tampone, questo viene inviato in uno delle decine di laboratori che si stanno occupando dei test COVID-19.

Qui viene analizzato grazie a sofisticati macchinari (RT-PCR) che, con l’ausilio di diversi tipi di reagenti chimici specifici, sono in grado di rilevare la positività o la negatività al virus. Questi test sono i più precisi a disposizione, ma mantengono comunque una certa percentuale di inaffidabilità che determina per esempio un certo numero di falsi negativi: sulle dimensioni di questo problema si sta ancora discutendo. I risultati possono essere poi anche debolmente positivi, cosa che complica ulteriormente il lavoro dei laboratori.

Perché è importante fare tanti test

L’opportunità di fare tamponi alle persone che non mostrano sintomi è un argomento di discussione nella comunità scientifica, ma quello di farli a quanti più sintomatici possibile, e possibilmente a tutti, non lo è. L’OMS raccomanda infatti di «fare test, fare test, fare test», e lo stesso ministero della Salute identifica fin dal 27 febbraio come casi sospetti che richiedono il tampone tutti quelli che hanno almeno un sintomo acuto riconducibile alla malattia. Anche nella circolare del 3 aprile che riconosce i limiti dei laboratori di analisi, si specifica comunque che i test «vanno riservati prioritariamente ai casi clinici sintomatici/paucisintomatici e ai contatti a rischio familiari e/o residenziali sintomatici».

Nelle regioni in cui il contagio è più limitato, poi, la circolare dice: «se si dispone di risorse sufficienti, effettuare test diagnostici in tutti i pazienti con infezione respiratoria», confermando la linea ministeriale che, nei limiti del possibile, vanno fatti i test su tutti i casi sospetti.

Fare i test è importante principalmente per due motivi: il primo è isolare il più possibile i malati dai sani, operazione fondamentale per limitare la diffusione del virus e possibile soltanto distinguendo gli uni dagli altri. Il secondo motivo è epidemiologico: serve a conoscere il meglio possibile – dal punto di vista delle informazioni a disposizione, perlomeno – l’andamento del contagio.

Anche se per molti pazienti non gravi le cure domiciliari potrebbero essere simili o analoghe, con o senza tampone, la gestione di un’epidemia prevede scelte che prescindono dall’aspetto clinico dei singoli pazienti, e che riguardano invece l’aspetto pubblico e collettivo del contagio. Queste scelte sono migliori quando sono prese conoscendo l’estensione reale dell’epidemia.

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