Coronavirus: cosa sta succedendo nelle case di riposo

Redazione
Coronavirus: cosa sta succedendo nelle case di riposo

Dal 7 marzo a oggi, nella casa di riposo di Quinzano d’Oglio, in provincia di Brescia, sono morte 33 persone: l’ultima domenica. Ufficialmente solo una di queste è morta di COVID-19: la prima, a cui è stato fatto il tampone dopo il decesso in ospedale. Gli altri 32 ospiti sono morti nella struttura, perché non è stato possibile fare arrivare l’ambulanza. «Non sono stupito, è una condizione molto frequente da queste parti», spiega Luca Laffranchi, che presiede la RSA, la sigla che identifica le residenze sanitarie assistenziali. Normalmente in quella di Quinzano d’Oglio, che ha 80 posti letto, muoiono uno o due ospiti al mese.

«Le RSA non sono ospedali», ha detto Laffranchi, «e non sono sicuramente ospedali con reparti di malattie infettive. Non abbiamo nessun tipo di barriera che possa isolare il malato dal non malato. Il contatto tra operatori e ospiti è stretto, le persone vanno imboccate, lavate. Abbiamo usato quello che avevamo, e all’inizio mancavano addirittura i sovracamici e le mascherine per il personale, che abbiamo poi recuperato con grandissima difficoltà».

Nel momento del massimo dell’emergenza nella struttura, alla casa di riposo di Quinzano d’Oglio sono morte cinque persone in un solo giorno. Ma è una situazione condivisa da molte altre strutture in Lombardia e nelle altre regioni d’Italia, così come tutte le difficoltà annesse: personale ammalato e a casa in isolamento, difficoltà a reperire mascherine e sovracamici, istruzioni sanitarie che vengono aggiornate ogni giorno, casi sospetti che si aggravano e poi muoiono senza poter essere ricoverati e tantomeno sottoposti a tampone, e quindi non risultano nei dati ufficiali diffusi ogni giorno dalla Protezione Civile su cui si basano le analisi epidemiologiche e quelle sull’evoluzione del contagio in Italia.

Dopo i primi casi di contagi confermati a Codogno, le RSA lombarde – ma in generale del Nord Italia – hanno ristretto al minimo le visite ai pazienti, limitandole a una persona e per orari ridotti. Dopo l’8 marzo le strutture di tutta Italia sono state sostanzialmente chiuse tranne che per il personale, una misura drastica che ha stravolto il funzionamento delle case di riposo, normalmente apertissime alle visite dall’esterno. In molti casi è stato comunque troppo tardi: il virus era già stato portato dentro dai visitatori o dal personale, e si è diffuso senza che gli operatori sanitari potessero fare granché per contenerlo.

Le case di riposo con dieci, venti, trenta o più morti nell’arco delle prime settimane di marzo sono tante, secondo quanto raccontato dalla stampa e dalle testimonianze delle persone a conoscenza della situazione. Nella stragrande maggioranza dei casi queste morti sono avvenute nelle strutture stesse, senza che i pazienti – anziani e quasi sempre con gravi malattie pregresse – potessero essere ricoverati in ospedale, e senza che venisse fatto loro un tampone per confermare il contagio da coronavirus.

Come spiega Fabrizio Lazzarini, presidente della Fondazione Carisma di Bergamo, è normale che dei pazienti in cura nelle RSA si occupino le strutture fino alla loro morte. Sarebbe anzi sorprendente, secondo Lazzarini, che gli ospedali già sovraccarichi accolgano persone di oltre 85 anni con quadri clinici già compromessi. Ma il fatto che i pazienti si ammalino e muoiano senza essere mai sottoposti a test è un discorso diverso, ed è uno dei motivi per cui si stima che non solo il numero di contagi, ma anche quello di morti per COVID-19, sia molto più alto di quello ufficiale. «I tamponi non ci sono. Non esistono», dice Lazzarini.

Quello che dirige Lazzarini è un ospedale geriatrico, molto più grande e attrezzato di una normale RSA. Ma anche nella sua struttura, nonostante le migliori attrezzature, circa il 25 per cento del personale è a casa in malattia, una percentuale ancora inferiore rispetto a quella stimata per le altre RSA della provincia di Bergamo. Nei giorni scorsi, i responsabili di una serie di case di riposo bergamasche hanno stimato in 600 i morti per COVID-19 negli ultimi giorni nelle sole strutture della provincia. Lazzarini dice che la stima gli sembra realistica.

La Residenza Borromea di Mombretto, in provincia di Milano, ha registrato il primo caso di COVID-19 il 4 marzo: un paziente che aveva presentato sintomi ed era stato ricoverato, risultando positivo al tampone. Immediatamente, ha spiegato una portavoce della struttura al Post, tutti i pazienti con sintomi sospetti sono stati isolati: erano una ventina. Coordinandosi con l’ATS, la struttura ha iniziato a fare tamponi: su 43 test, tutti sono risultati positivi al coronavirus. L’ATS ha poi deciso di interrompere i test nella struttura, considerando tutti gli ospiti come positivi vista l’altissima percentuale di contagiati.

Dal 4 marzo ad oggi la Residenza Borromea ha registrato 62 decessi. Non si può sapere con certezza quanti siano stati dovuti alla COVID-19: una piccola parte non presentava i sintomi più evidenti della malattia, ma soprattutto parte di quelli sospetti non sono stati testati. Diversi pazienti sono morti nella struttura, perché è stato possibile farne ricoverare soltanto una parte, quelli che si sono aggravati con un decorso più prevedibile.

Ad oggi gli unici ospiti della struttura risultati ufficialmente positivi al coronavirus sono i 43 a cui è stato fatto il tampone inizialmente, una parte dei quali peraltro è sopravvissuta alla malattia. Anche se non si può sapere con certezza quanti dei 62 decessi siano dovuti al coronavirus, il dato è molto più alto del normale, ha confermato la portavoce della RSA: sono morti quasi la metà dei 150 ospiti.

La struttura è stata criticata dai familiari di alcuni ospiti per le modalità di comunicazione del contagio interno, ma la portavoce ha spiegato che tutti gli sviluppi sono stati comunicati con tempestività all’ATS locale, con la quale si è coordinata per gestire gli isolamenti dei pazienti. In una RSA, però, questa operazione è complessa, perché non sono strutture progettate in previsione di un’epidemia: ma non lo sono nemmeno gli ospedali, che infatti hanno appositi reparti per le malattie infettive. In molti casi mancano aree adatte e non ci sono stanze singole a sufficienza, e recuperare i materiali di protezione come le mascherine è dispendioso sia per le risorse dedicate sia per l’esborso economico.

«Anche qui c’è gente che da un mese non vede figli, gente in prima linea come i medici, tutti quanti fino agli addetti delle pulizie. È importante che la gente abbia fiducia nel lavoro delle RSA», dice la portavoce della Residenza Borromea.

Le storie delle RSA colpite in queste settimane dall’epidemia di COVID-19 sono emerse principalmente quando le hanno raccontate i responsabili delle strutture, oppure i familiari degli ospiti deceduti. Ma in certi casi non si sa con certezza cosa sia successo: secondo Il Giorno, per esempio, alla residenza Anni Azzurri di Lambrate, alla periferia di Milano, 23 ospiti sono morti nei giorni scorsi, e di questi 14 erano risultati positivi al coronavirus. Ci sarebbero anche decine di altri contagiati.

Queste situazioni peraltro non riguardano la sola Lombardia. Nella RSA Opera Pia Curti di Borgomanero, in provincia di Novara, ci sono stati 16 morti dal 14 marzo a oggi. La prima conferma che nella struttura erano presenti casi di COVID-19 è arrivata però soltanto il 18 marzo, quando una paziente in ospedale è risultata positiva al tampone: era stata ricoverata due settimane prima, ma visto che aveva già problemi respiratori si era sospettata una semplice polmonite, ed era rimasta ricoverata per giorni senza essere testata.

Quando si è saputo che era positiva al coronavirus, ormai era tardi. A essere stati sottoposti a tamponi sono stati finora soltanto tre ospiti della RSA, tutti in ospedale, uno dei quali è morto ieri. Nel frattempo 14 ospiti sono morti nella struttura: quando è stato chiamato per un ricovero d’urgenza, il 112 ha detto che gli anziani erano troppo compromessi per essere ricoverati, o che – non risultando positivi al coronavirus, non avendo fatto il tampone – rischiavano di essere contagiati se portati in ospedale. «La situazione è drammatica e mi rendo conto che in ospedale si danno delle priorità», spiega Tinivella.

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