Estasi e tormento: i segreti dell’Arte
Estasi e tormento: i segreti dell’Arte. Il marmo che fluisce e prende la forma della Bellezza. L’intrico di mani e volti. L’ ombra che diventa luce, la luce che diventa ombra. Tracce di pennello come suggello dell’anima sulla tela. L’Arte, sublimazione del dolore, che si risolve in incredibili palpiti di vita.
Con questa rubrica, e con questo articolo in particolare, prende il via un viaggio attraverso opere d’arte e letterarie, di cui vi svelo i segreti, gli arcani e i lati nascosti, come mai prima d’ora vi sono raccontati.
Dettagli e aneddoti su sculture e dipinti, celebri e non, che attraverso il connubio con la fotografia rivelano la vita immobile e la poesia sottile e sensuale insite nella “carne di marmo”… Vi racconto la meraviglia, come mai prima d’ora l’avete vista. Grazie a tutti per la lettura.
La Bellezza svelata: da un blocco di marmo alla vita
Un artista è un uomo capace di cogliere una promessa, una possibilità nella materia. Un genio, invece, è qualcuno che nutre qualcosa di ancor più potente: una visione. Vede nella materia ciò che altri non vedono. Ne è così padrone da piegarla nella direzione che preferisce. Ne ha un’idea talmente chiara da non esserne schiavo. Né di essa, né dei suoi limiti: è la materia a seguire il suo volere.
Nel maggio del 1501, Michelangelo Buonarroti rientrava a Firenze da Roma. Il primo incarico che ricevette fu quello di lavorare ad un grosso blocco di marmo, di notevoli dimensioni ma di mediocre qualità, estratto molti decenni prima dalle cave di Fantiscritti, nel distretto di Miseglia a Carrara.
E che da tempo giaceva ormai abbandonato nel cortile dell’Opera di Santa Maria del Fiore. Molti altri scultori prima di lui avevano tentato di lavorarlo, per trasformarlo in una statua da collocare nell’abside della suddetta chiesa: da Agostino di Duccio, nel 1464, a Bernardo Rossellino, nel 1476.
Ma tutti lo abbandonarono, lasciandolo appena sbozzato, a causa della cattiva qualità e della fragilità del masso stesso. Pertanto, lavorare un marmo mediocre e già in parte manomesso da altri era la sfida che a Michelangelo si prospettava e che, probabilmente, solo uno come lui avrebbe potuto accogliere.
Nel luglio del 1501 chiese ai manovali dell’Opera di sollevare il masso per iniziare a studiarlo. Il 16 agosto del 1501 accettò ufficialmente l’incarico, e dal mese di settembre si mise all’opera. Nel giro di tre anni, Michelangelo realizzò il suo nuovo capolavoro: la statua del David.
Il biancore accecante
Alta quasi sette metri, di un biancore accecante, di una nudità possente ed ostentata, la scultura richiamava alla memoria la gloria passata di Fidia e di Prassitele: nulla di simile si era più visto dai tempi della Grecia classica e della Roma antica. Ma c’è dell’altro.
Quando le fonti dicono che Michelangelo iniziò a “studiare il blocco”, non lo intesero nel senso comune per un artista. Ludovico Buonarroti, padre di Michelangelo, era un uomo ricco, ma violento, che non aveva coscienza della grandezza del figlio e pertanto, si dice, lo maltrattava. Trovava disdicevole che usasse le mani per lavorare e, di conseguenza, Michelangelo imparò a non usarle.
Così, quando un principe gli fece visita nel suo studio e trovò il maestro intento a fissare un gigantesco blocco di marmo, capì che le voci erano vere: Michelangelo era andato lì, tutti i giorni per quattro mesi, a fissare il marmo, per poi tornarsene a casa.
Da blocco a statua
Allorquando il principe gli chiese: “Cosa fate?”, Michelangelo rispose: “Sto lavorando, non vedete? “. Ancora una volta, tre anni dopo quel blocco di marmo era la statua del David.
Mito, leggenda o verità romanzata che sia, le curiose origini del David mi fanno riflettere. A volte ci si sente come quel blocco di marmo: sviliti, fraintesi, svalutati, messi da parte, abbandonati a se stessi, in un angolo.
Cesellati da cento colpi di scalpello, ognuno dei quali puntualmente tirato a vuoto, senza mai riuscire ad assestare quello giusto, senza mai riuscire a cristallizzare la materia in fogge definite; plasmati da una marea di mani diverse, senza mai trovare la propria forma, la propria ragion d’essere, il centro del proprio io.
Fragili, mediocri o presunti tali, indegni persino di essere toccati per l’essenza stessa che ci è costitutiva, e tali da poter essere solo occultamente pensati. A volte ci vuole mano abile per colmare tutte quelle crepe, per far emergere da esse lo splendore vivo che solo un’accurata levigatura della superficie, e con essa, delle ferite, può regalare.
Un capolavoro che stupisce il mondo da secoli
Per liberare, per liberarci. Perché a volte, è dal marmo apparentemente più fragile e più difficile da lavorare, è dai percorsi più travagliati e impensati, che prendono vita le opere d’arte più eccezionali. Ed ecco il David: un capolavoro che stupisce il mondo da secoli, una visione che si è trasformata in un potente inno alla bellezza.
Perché laddove gli altri percepivano fragilità, egli ha trovato plasticità e facilità alla modellazione; dove gli altri percepivano spazi inadatti alla lavorazione, egli ha trovato armonia nelle forme. Dove gli altri si interrogavano su cosa trarre da quel marmo malmesso, egli ha affermato un’idea chiara e limpida e ha lasciato che essa prendesse vita.
Laddove un uomo comune vede una materia fredda ed inutilizzabile, e un artista una possibilità di espressione, un genio “vede” l’immortalità immediata della bellezza e la svela al resto del mondo.
“Potenza e atto”, scriveva Aristotele. Molto più prosaicamente, ma forse più incisivamente, scriveva invece Michelangelo nelle sue “Rime”: “Io vedo l’angelo intrappolato nel marmo e scavo per liberarlo. Ogni blocco di pietra ha una statua dentro di sé.”
Serena Fierro