Il lato oscuro dell’impero Brandy Melville
Il mondo della moda fast fashion è spesso avvolto in una nube di controversie e l’esempio lampante di ciò è il brand di vestiti Brandy Melville
Il lato oscuro dell’impero Brandy Melville. Il mondo della moda fast fashion è spesso avvolto in una nube di controversie e l’esempio lampante di ciò è il brand di vestiti Brandy Melville.
Questa azienda, nata negli anni ‘80 in Italia, è diventata un fenomeno di culto tra le adolescenti di tutto il mondo, grazie alla sua estetica California girl e ai prezzi accessibili. Tuttavia, dietro questa immagine patinata si celano una serie di scandali e pratiche discutibili che hanno sconvolto l’industria.
Il peggio del fast fashion
Dalla discriminazione razziale e di genere nelle assunzioni, al trattamento disumano dei dipendenti, passando per lo sfruttamento della manodopera nelle fabbriche in Italia, Brandy Melville è diventata un simbolo di tutto ciò che non va nell’industria del fast fashion.
Numerose controversie che hanno travolto Brandy Melville e il suo problematico CEO, Stephan Marsan, dalla politica di taglia unica all’ampio impatto del suo brand sull’ambiente e sulle violazioni dei diritti umani.
La rapida ascesa di Brandy Melville
Brandy Melville nasce negli anni ’80 in Italia, fondata da Silvio Marsan e suo figlio Stephan, attuale CEO dell’azienda. Sebbene il nome del brand possa suggerire l’esistenza di una persona, in realtà si tratta di una storia fittizia creata dalla società, che racconta di una ragazza americana di nome Brandy che si innamora di un inglese di nome Melville durante un viaggio in Italia.
Il marchio ha trovato un enorme successo quando ha aperto il suo primo negozio negli Stati Uniti nel 2009, scegliendo strategicamente il quartiere di Westwood a Los Angeles, vicino al campus dell’UCLA. Qui, i capi casual e femminili di Brandy Melville hanno conquistato rapidamente le adolescenti americane.
Negli ultimi 15 anni, Brandy Melville si è espansa a livello globale, aprendo 94 negozi in tutto il mondo, di cui 36 solo negli Stati Uniti. Il suo successo è stato ulteriormente alimentato dalla sua presenza sui social media, dove ha sfruttato il fenomeno degli influencer per raggiungere un vasto pubblico di giovani consumatrici.
La controversa politica del “One Size Fits Most”
Uno degli aspetti più controversi di Brandy Melville è senza dubbio la sua politica di taglia unica, nota come “one size fits most”. Mentre in passato l’azienda offriva taglie più convenzionali, ormai la maggior parte dei suoi capi è disponibile in un’unica taglia, corrispondente a circa una XS/S americana.
Secondo un ex dirigente intervistato nel documentario “Brandy Hellville & The Cult of Fast Fashion”, prodotto in America da HBO Max, questa strategia era parte integrante del modello di business di Brandy Melville, in quanto permetteva di mantenere il brand “esclusivo” e associato a uno specifico (e molto magro) standard estetico.
Questa politica ha avuto un impatto negativo sia sui clienti che sui dipendenti. I social media sono pieni di post di clienti che lamentano di non riuscire a indossare i capi di Brandy Melville e di dover fare diete per riuscire a entrare negli abiti così piccoli.
Allo stesso modo, i dipendenti intervistati nel documentario hanno raccontato di aver sofferto di disturbi alimentari e di aver avuto difficoltà a mantenere una sana immagine del corpo, sotto la pressione di dover indossare i capi del marchio.
Un ambiente di lavoro tossico
Le accuse rivolte a Brandy Melville non si limitano alla controversa politica di taglia unica. Numerosi ex dipendenti hanno denunciato pratiche discriminatorie nell’assunzione e nella gestione del personale.
Secondo le testimonianze, l’azienda prediligeva l’assunzione di giovani donne bianche e magre, che talvolta venivano reclutate direttamente tra i clienti che frequentavano i negozi. Nel negozio di punta di New York, dove Marsan aveva un ufficio che dava sul piano di vendita, era presente una luce che il CEO faceva lampeggiare quando individuava un cliente che gli piaceva e che voleva assumere.
Una volta assunti, i dipendenti erano tenuti a inviare quotidianamente foto a figura intera dei loro outfit a Marsan, che le conservava in un archivio sul suo telefono. Alcune testimonianze affermano che veniva loro richiesto anche di inviare foto del seno e dei piedi.
Le accuse di razzismo e violenza
Brandy Melville è stata inoltre accusata di razzismo, con due cause legali intentate contro di essa. Un ex dirigente ha denunciato la chiusura del suo negozio a Toronto perché la clientela era composta principalmente da persone di colore. Secondo alcuni ex dipendenti, ai dipendenti bianchi veniva affidato il lavoro al banco delle vendite, mentre ai dipendenti di altre etnie toccavano il magazzino o le retrovie.
Inoltre, alcuni dipendenti preferiti, che rientravano nell’estetica “Brandy”, ricevevano trattamenti di favore, come inviti a lussuosi viaggi di produzione e sviluppo in Italia e Cina, l’uso di un auto aziendale con tanto di autista e a un appartamento a New York. Proprio in quest’ultimo, una dipendente di 21 anni ha denunciato di essere stata aggredita sessualmente da un uomo italiano di mezza età.
Il controverso CEO Stephan Marsan
Stephan Marsan, figlio del fondatore Silvio, è una figura enigmatica e riservata, con quasi nessuna presenza online. Secondo le testimonianze raccolte nel documentario e nell’inchiesta di Insider del 2021, Marsan e altri alti dirigenti dell’azienda facevano parte di una chat di gruppo chiamata “Brandy Melville gags”, in cui venivano condivisi meme e battute antisemite, razziste e sessiste, oltre a foto sessualmente esplicite.
Un ex proprietario di negozio ha dichiarato che Marsan era un sostenitore del repubblicano Trump e che si prendeva gioco delle dipendenti che erano sostenitrici di Bernie Sanders (socialista democratico e senatore per lo Stato del Vermont). Secondo lui, le posizioni politiche di Marsan erano alimentate dal suo odio per le tasse e dalla sua auto-identificazione come libertario.
La gestione aziendale di Marsan è avvolta nel mistero: il marchio Brandy Melville è di proprietà di una società svizzera, mentre ogni negozio è posseduto da una diversa società fantasma, rendendo difficile comprenderne le finanze complessive. Come altri brand di fast fashion, anche Brandy Melville è stata accusata di aver copiato i design di altri marchi e di designer indipendenti.
L’impatto dannoso della moda Fast Fashion
Il documentario utilizza Brandy Melville come esempio emblematico dei problemi creati dalla moda fast fashion, con il suo ciclo produttivo rapido e i prezzi contenuti, che incoraggiano il consumo e lo spreco di abbigliamento.
Questo modello di business, basato su tendenze fugaci e produzione a basso costo, ha gravi ripercussioni sull’ambiente e sui diritti umani. Da un lato, l’enfasi sulla produzione di capi di scarsa qualità alimenta l’accumulo di rifiuti tessili; dall’altro, la produzione rapida e a basso costo è resa possibile dallo sfruttamento dei lavoratori immigrati cinesi nelle fabbriche di Prato, in Italia.
Inoltre, grave è l’inquinamento dei corpi idrici in Ghana, dove vengono smaltiti i rifiuti tessili provenienti dall’Occidente. Fenomeno che si è intensificato notevolmente con l’affermarsi di questo modello di consumo.
La necessità di cambiamento
Le numerose controversie che hanno travolto Brandy Melville sono emblematiche dei problemi più ampi dell’industria della moda fast fashion. Solo attraverso un impegno collettivo, sarà possibile costruire un’industria della moda davvero responsabile, che metta al centro il rispetto dell’ambiente e dei diritti umani. Prediligiamo quindi l’usato al fast fashion e l’acquisto più consapevole nel rispetto dei lavoratori.
Paola De Palma