Inferno dei rider, lavoro come schiavitù, commissariata Uber Italy

Redazione
Inferno dei rider, lavoro come schiavitù, commissariata Uber Italy
Fattorino

Inferno dei rider, lavoro come schiavitù, commissariata Uber Italy. Costretti a sottostare a condizioni di lavoro ai limiti della schiavitù “per non veder fallito il proprio sogno migratorio”; portati a non protestare nonostante penalizzazioni fino al 20% del loro guadagno nel caso in cui non accettavano almeno il 95% delle corse; seguiti con la geolocalizzazione in ogni spostamento, e controllati persino su quante volte al giorno risultavano online nella app di gestione del lavoro.

L’inferno dei rider è descritto nelle 60 pagine con cui il Tribunale di Milano, sezione misure di prevenzione, ha decretato l’amministrazione giudiziaria di Uber Italy, filiale italiana della holding fondata a San Francisco ma con sede europea in Olanda. È la prima volta al mondo che la ricostruzione della vita di un fattorino viene messa nero su bianco, e associata ad una parola: “caporalato”, ovvero l’intermediazione illecita e lo sfruttamento della manodopera.

La parte dei caporali in questo caso la facevano, secondo i giudici, le società intermediarie, come la Flash Road City, attiva dal 2008 a Milano nei servizi di pony express, e incaricata di ingaggiare i lavoratori per conto di Uber Eats, l’app di di delivery collegata alla multinazionale del noleggio auto. Ma – come emerge dalle intercettazioni – la filiale italiana non si limitava ad ‘appaltare’ i servizi, bensì aveva un ruolo attivo nel controllo dei rider, sia quelli direttamente ‘assunti’, sia quelli delle ‘fleet partner’, cioé le intermediarie.

Cottimo e violenze

In una conversazione è proprio una manager a chiedere di “bloccarne uno perché ha una scheda sim non compatibile con il sistema di geolocalizzazione Uber”. Per questo, a detta dei magistrati, la società era “pienamente consapevole dello sfruttamento in cui questi versavano”: “cottimo” a tutti gli effetti, con persone “costrette a ritmi sempre piu’ intensi e frenetici, con tutte le ricadute su stress e rischi dovuti alla necessita’ di essere celeri nelle consegne”.

I giudici milanesi Fabio Toia, Veronica Tallarida e Ilario Pontani, hanno così deciso di applicare il commissariamento proprio Uber Italy, e di scandagliare il ruolo di alcuni suoi manager, come Marco Vita, “operations coordinator” di Milano. Da un lato la “violenza” con cui i fattorini erano trattati dalle intermediarie, come Frc. “Ti vengo a prendere a sberle, ti rompo il c..o”, e’ il tono in cui chi li gestiva si rivolgeva loro, come si evince dal alcune intercettazioni; in un clima che i giudici definiscono di “sfruttamento e sudditanza”.

Privazione mance

Se i rider non rispettavano le condizioni di lavoro, se solo provavano a ribellarsi – come accaduto in un caso, quando il giovane si rivolge al titolare definendolo “schiavista” – la reazione è “il blocco dell’account”, o, peggio, la “privazione delle mance”.
Ma bastava anche molto meno per essere puniti: “Quelli che bivaccano, che puzzano, che fanno ca…ate, fuori dai co…ni all’istante”, si legge in un altro messaggio; mentre la perdita o la rottura della borsa, il grosso cubo che portano sulla schiena e con cui si vedono sfrecciare per le città, “comportava una multa di 80 euro”.

Dall’altro la condizione senza speranza in cui versavano i fattorini, per lo più giovani e provenienti da “Paesi in guerra”: “Dimorano nei centri di accoglienza straordinaria; sono in una condizione di vulnerabilita’ tale da chiedere permesso di soggiorno per motivi umanitari mentre aspettano di ottenere lo status di rifugiato politico”, scrivono i magistrati.

E ancora – delineando un quadro duro, ma con parole ricche di umanità -: si sentono “costretti a lavorare per non vedere fallito il proprio sogno migratorio”; vivono “un forte isolamento sociale”; sono “sfruttati e discriminati da datori di lavoro senza scrupoli che approfittano della loro vulnerabilita’ per reperire lavoro a bassissimo costo, poiché si tratta di persone disposte a tutto per sopravvivere”.

Turni massacranti e paghe minime

Tre euro. A tanto ammontava la paga per una consegna, indipendentemente dalla distanza percorsa; con punizioni anche da 50 centesimi se non venivano accettate le fase orarie proposte. Il risultato era che in un turno di circa 70 consegne al giorno non si superavano i 200 euro di guadagno, accreditati anche in ritardo.

Oltre 21mila euro le mance “rubate” dai caporali. La situazione è peggiorata con il Covid, Con l’esplosione dei servizi di consegna a domicilio, che “potrebbe aver provocato reclutamenti a valanga e non controllati”.

Si è arrivati infatti ad un “regime di sopraffazione retributivo” nei confronti di persone “reclutate in una situazione di emarginazione sociale”; aggravata “dall’emergenza sanitaria a seguito della quale l’utilizzo dei rider e’ progressivamente aumentato a causa dei restringimenti alla liberta’ di circolazione”, considerano i togati.

Le indagini

L’indagine è condotta dalla Guardia di finanza di Milano, con il coordinamento del pm Paolo Storari e della numero uno della Dda, Alessandra Dolci.

Alle società intermediarie sono contestati anche la frode per circa 500mila euro di contributi non pagati; è stato sequestrato oltre mezzo milione di euro, trovato in una cassetta di sicurezza. Sono indagati 5 fra titolari e gestori per praticamente “tutti” i reati in materia di diritto del lavoro.

Dal canto suo, Uber Eats ha spiegato di aver “messo la propria piattaforma a disposizione di utenti, ristoranti, corrieri negli ultimi 4 anni in Italia. Condanniamo – aggiungono – ogni forma di caporalato attraverso i nostri servizi in Italia”.

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