Jasmine Trinca: “Le quote rosa? Una sconfitta”

Redazione
Jasmine Trinca: “Le quote rosa? Una sconfitta”

Jasmine Trinca: “Le quote rosa? Una sconfitta. Serve però che chi detiene il potere lasci spazio”. Alla Mostra del Cinema di Venezia abbiamo incontrato l’attrice romana che ha debuttato dietro la macchina da presa con il corto “BMM-Being My Mother” dedicato al suo rapporto con la mamma scomparsa: “L’Italia ha bisogno di racconti fuori dagli schemi”

“We are not girls. We are silver bullets for your middle-class brains!” è l’adesivo che una progressista professoressa di ginnastica regala alle due protagoniste di “Le ragazzine stanno perdendo il controllo. La società le teme.

La fine è azzurra”, la graphic novel che anni fa ci fece conoscere il fumettista abruzzese Ratigher. Quella stessa frase – “Non siamo ragazze. Siamo pallottole d’argento per i vostri cervelli borghesi!”, in italiano – la indossa, stampata su una mascherina nera, Jasmine Trinca, “una mascherina antagonista” come ci dice quando la incontriamo in un hotel al Lido di Venezia.

L’attrice romana debuttò venti anni fa ne “La stanza del figlio” di Nanni Moretti e che è diventata tra le più talentuose, affermate ed amate interpreti nel panorama cinematografico nazionale ed internazionale.

E’ stata nei giorni scorsi qui alla 77esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica per il film “Guida romantica a posti perduti” di Giorgia Farina in cui recita accanto a Clive Owen.

Ieri sera ha presentato nella sezione Orizzonti “BMM-Being My Mother”, un corto che segna il suo debutto dietro la macchina da presa e che è interamente dedicato al suo rapporto con la mamma scomparsa poco prima di diventare a sua volta madre della piccola Elsa.

Nei poco più di undici minuti senza dialoghi, vediamo una madre (Alba Rohrwacher) e una figlia (Maayane Conti) camminare senza sosta sotto il sole di una Roma deserta trascinando una grande valigia color blu ottanio.

“È un corto che gioca molto su cose serie e meno serie”, spiega all’HuffPost. “La valigia è un po’ un vaso di pandora, è come se fosse la terza protagonista in questo rapporto madre/figlia viscerale e inedito che raccontiamo. Ha a che fare con l’esistenza e con la strada che ci tocca fare nostro malgrado o per nostra fortuna”.

Madre e figlia si osservano, si rincorrono, si imitano a vicenda, a volte si sfuggono, ma finiscono sempre con il ribaltare i loro ruoli naturali. La madre che diventa figlia e viceversa, creando così una complicità ancora più forte che finirà con una grande, ulteriore, prova d’amore.

Quando ha deciso di provarci con la regia?

“Volevo passare dall’altra parte e a un certo punto mi sono decisa. Essendo stata – quella di mia madre – una perdita veramente importante, ho pensato da subito che dovevo riempire quel vuoto con qualcosa di creativo e vitale”

“Non avevo pensato a un corto, ma quello che ho fatto è provare a parlare la lingua che conosco. Questo corto è uno sguardo condiviso con altre persone, a cominciare da Alba che per me è stata come una sorella. Mi ha dimostrato una grande generosità mostrandomi la sua voglia di giocare insieme”

“Il gioco è il nostro lavoro. Quando siamo viste in modo classico, è come se ti mancasse una parte della sperimentazione. Alba e io non avevamo mai lavorato insieme, ma qui ci siamo guardate e siamo diventate una cosa sola. L’emozione che ho provato nel girarlo ha a che fare con la prima esperienza, con qualcosa di infantile ed emozionante, perché questa che racconto è la mia vita”.

Questo le ha permesso di avere uno sguardo più autentico?

“Tutto è nato perché ho cominciato a sentire un interesse rispetto allo sguardo. Come sanno in molti e come ho più volte detto, sono arrivata a fare l’attrice non frequentando le scuole. Anche per la regia è andata così, non c’è stata una formazione tecnica o scolastica”.

“A forza di fare l’attrice, mi sono interrogata sullo sguardo che avevano i registi di volta in volta su di me. Uno sguardo sempre diverso, anche se a volte i personaggi potevano essere simili. Sulla differenza di questo sguardo mi è venuto un interesse, soprattutto quando ho lavorato con Valeria Golino in “Miele”, il film che ha segnato il suo debutto alla regia”.

“Guardandola lavorare, quello che mi ha colpito non è stata la sua capacità tecnica di mettere in scena qualcosa, quanto lo sguardo, il suo pensiero dietro la regia. L’ho trovato molto affascinante. Con il tempo, invece di essere guardata, ho cominciato a pensare a come mi piacerebbe guardare una storia e anche guardarmi”.

Da attrice non si sentiva già osservata abbastanza?

“Certo, sono stata guardata in molti modi, spesso entusiasmanti, a volte in percorsi nuovi, con esagerazioni e possibilità, altre volte in maniera più classica. L’aver debuttato nella regia non nasce comunque da una frustrazione come attrice”

Uno sguardo il suo femminile. Per lei è importante?

“Ci credo, certo, a cominciare dal mio che porto in questo piccolo film. È il mio sguardo di donna, il mio percorso. Il problema in tal senso è alla base. Pensi al rapporto padre-figlio che nel cinema diventa tipo un archetipo: è il racconto, è l’universale, è il neutro”.

“Il rapporto madre/figlia, invece, diventa un racconto femminile, quindi lei capisce già che se il maschile si può ergere a modello universale, io con questa piccola cosa tento di dire che è quello il mio universale, cioè con le due donne. Penso che rappresentare il mondo non a una sola dimensione, abbia un senso”.

Da un ufficio a un festival a un premio sono richieste le quote rosa: cosa ne pensa?

“Per me che sono una battagliera, le quote rosa sono una sconfitta. Nel mio mondo ideale, mi fa piangere pensare che noi donne, con tutto il valore e la potenza che generiamo, siamo costrette a chiedere qualcosa. Per come sono io, quella cosa ce la dovremmo prendere e so che c’è lo spazio per farlo”.

“Serve però che qualcuno liberi quello spazio, ma come sappiamo, chi detiene il potere fa fatica a farlo. Gli Stati Uniti, ad esempio, non hanno solo un problema sulle quote femminili, ma hanno soprattutto un problema razziale non da poco. Il problema è culturale”.

“ Nel nostro mondo ideale che rappresenta tutto e che è quello che ho rappresentato in questo corto, puoi fare la storia che vuoi e come ti pare. Quel mondo lì è meraviglioso, perché esistono gli altri e non c’è una sola, esclusiva, lettura. In questo mondo, invece, nel nostro mondo reale, siamo davvero troppo indietro”.

Alla prossima Berlinale ci saranno i premi gender neutral: è favorevole?

“A me è successo a Cannes, dove presi il premio senza distinzione di genere. Non era il premio all’attrice, ma un premio che andava all’interpretazione. Quello che mi chiedo è questo: noi donne attrici abbiamo abbastanza ruoli significativi per poter immaginare all’interno di un festival o di un premio di avere quella possibilità di parteciparvi o vincerlo davvero, oppure diventerà solo un “stiamo attenti a come diamo questi premi?”.

“Ecco, quest’ultima cosa non la vorrei. Io penso che il mondo non sia binario, non è maschio e femmina. Il fatto di includere ogni espressione del sé sarebbe il massimo, ma bisogna lavorare sulla questione culturale. Nel cinema, ad esempio, su quali sono i ruoli che poi vengono proposti, a chi vengono proposti e come si forma uno star system”.

Avere delle regole porta comunque a dei cambiamenti culturali. Le quote rosa hanno portato dei grandi cambiamenti in tal senso.

“Certo, questo sì, perché oggi, soprattutto nelle aziende, sei obbligato ad avere ai vertici delle donne. Per me, però, come parte di questo movimento, è una tristezza. Nel mondo vero, ti costringono a prendere in considerazione tutto questo”.

“Nel mondo ideale accade naturalmente. Pensi a quanto è accaduto ieri: in questo Paese, per ripartire, hanno pensato di trovare 12 uomini – lo ripeto: 12 uomini – per un comitato tecnico-scientifico. È mai possibile che in Italia non ci sia una pensatrice femminile, una scienziata, da mettere all’interno di quel comitato? Se a quel livello lì non c’è, figuriamoci nel resto”. Leggi anche qui 

La stessa cosa è accaduta al Festival della Bellezza di Verona che lei ha inaugurato a fine agosto, unica donna tra 27 maschi. L’assenza di donne – ha detto qualcuno – è l’immagine di una rimozione di genere. Lei perché ci è andata?

“Quando ho scoperto questa cosa, ero già là, non lo sapevo. È un programma che è cambiato all’ultimo momento e solo quando mi sono trovata lì ho visto che non c’era nessun tipo di partecipazione femminile se non la mia. Per chi sono, la prima cosa che ho detto è farlo notare con una certa fermezza”. HUFFPOST

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