Napoli: “mamma killer” assolta dopo due anni in carcere
Come riporta il sito ilmattino.it, “È come se fossi tornata a respirare, cioè a vivere. Dopo due anni e dieci mesi terribili. L’arresto in strada mentre ero in macchina, quasi fossi una pericolosa latitante, poi il carcere, lontana da quel che ho di più caro al mondo: le mie bambine. Ora voglio dimenticare e, soprattutto riabbracciare Asia e Vittoria». Marina Addati, 32 anni, racconta quei 34 anni mesi d’inferno, durante i quali ha dovuto sopportare la più infamante delle accuse: quella di aver tentato di uccidere le sue figliolette avvelenandole con dei farmaci. Un’accusa che le è costata due processi: il primo a Roma, il secondo che si è concluso appena venerdì scorso a Napoli. In entrambi i casi la giovane è stata assolta. Grazie alla tenacia del suo difensore, l’avvocato Domenico Pennacchio, ma anche a due consulenze medico-legali firmate da altrettanti ricercatori dell’Università La Sapienza, oggi Marina è una donna libera.
Ci racconti questi ultimi tre anni
«Il mondo addosso è cominciato a cadermi proprio tre anni fa, il 28 dicembre 2016, quando vennero a prendersi le mie bambine. L’arresto è arrivato in seguito: prima mi portarono a Pozzuoli, dove ho subìto anche umiliazioni e minacce da parte delle altre detenute; proprio per questo, dopo soli cinque giorni venni trasferita a Benevento, dove sono rimasta fino a quando mi sono stati concessi gli arresti domiciliari».
Lei e suo marito non avevate nessuna contezza, e tanto meno il minimo sospetto, che le bimbe soffrissero – come hanno dimostrato poi i consulenti medici – di questa patologia rara che impedisce di metabolizzare i princìpi attivi dei farmaci, è così?
«No. Mai».
E il rapporto con i medici che seguivano le sue figlie com’era?
«Sempre tranquillo, lineare. Loro mi prescrivevano cosa somministrarle, e io eseguivo alla lettera. I problemi sono venuti alla luce solo quando Vittoria, la più piccola, una sera è andata in coma. Poi ho saputo che questa malattia genetica non è stata esattamente ancora individuata».
Torniamo a quei tre anni e dieci mesi di strazio. Su di lei pendeva un’inchiesta delicatissima: tentato omicidio di minori. Lei sapeva di essere indagata?
«No».
Ha mai ricevuto un’informazione di garanzia?
«Mai. Le ripeto: ho scoperto tutto quando gli assistenti sociali vennero a prendersi via le bambine. Un colpo terribile: quel giorno ho pensato di morire».
E dopo questo intervento, è mai stata ascoltata da un magistrato della Procura?»
«No, mai. Venni convocata una sola volta dalla sezione della polizia giudiziaria della Procura».
Ci racconti del suo arresto
«Ero uscita di casa per recarmi alla Procura dei minori di Napoli, che mi aveva convocata in conseguenza all’allontanamento di Asia e Vittoria. All’improvviso venni bloccata da un’auto: da quella macchina scesero alcune persone, carabinieri in borghese, e una militare mi prese per il braccio dicendomi che dovevo andare in carcere».
Come trascorreva le sue giornate in carcere
«Erano giorni interminabili in cui il tormento legato alla sorte delle mie bambine diventava un tarlo che ti scava dentro. Più passavano i giorni, pià quell’angoscia diventava insopportabile. Quello che ho vissuto non lo auguro a nessuno. Non è stato facile sin dall’inizio: ho trascorso i prime cinque giorni a Pozzuoli, dove il passaparola tra le recluse aveva fatto sì da dipingermi come una mamma assassina. Prima cominciarono gli insulti, poi ci fu anche qualcuno che – durante l’ora d’aria – incrociandomi mi sputava addosso… E così mi trasferirono a Benevento. Devo ringraziare il personale della Penitenziaria per l’umanità che mi hanno dimostrato».
E adesso?
«Adesso voglio solo riabbracciare le mie bambine. Voglio poterle riabbracciare, fare con loro l’albero di Natale e il presepe. Sarà il Natale più bello di tutta la mia vita».