L’uno di fronte l’altra: l’amore che commosse il mondo e l’arte che divenne vita

Redazione
L’uno di fronte l’altra: l’amore che commosse il mondo e l’arte che divenne vita

L’uno di fronte l’altra: l’amore che commosse il mondo e l’arte che divenne vita. Ogni grande artista che si rispetti, ogni grande fautore d’arte, d’ogni epoca e d’ogni tempo, è prima di tutto, e pur sempre, un uomo. Come tale, vive, gioisce, sente, soffre. Ama.

Sovente, sono le stesse esperienze di vita a determinarne il percorso artistico e la parabola esistenziale, giacché è nell’arte che si esprimono i bisogni più profondi e radicati dell’anima. Ed è con l’anima che l’arte dialoga. È alle anime che essa si rivolge.

E pur tuttavia, per quanto la contemporaneità, a partire dalle Avanguardie artistiche del Novecento, abbia scardinato ogni visione precostituita e puramente accademica dell’arte stessa, facendo spesso storcere il naso ai più e al gusto comune, esistono ancor oggi espressioni e forme artistiche in grado di parlare direttamente all’anima; di superare finanche il più prettamente estetico e conservatore dei gusti, per arrivare dritte al cuore dei fruitori. O meglio, delle persone.

Primavera 2010. MoMa di New York

Il clima che si respira è quello, spettacolare ed inconfondibile, della Performance Art, una corrente artistica che assolutizza e pone al centro dell’attenzione la potenza espressiva del corpo.

Marina Abramovic, artista serba naturalizzata statunitense divenuta simbolo del linguaggio performativo, nonché “Nonna della Performance Art”, come ella stessa si è definita e attiva in tal senso a partire dagli anni Sessanta del XX secolo, presenta uno dei suoi capolavori più intensi e meglio riusciti: “The artist is present”.

Capelli neri corvini, raccolti in una treccia ad incorniciare il volto. Ampio abito rosso monocromo, intramontabile icona di stile. Luci intime e delicate, chiare e soffuse. Una sola sala, gremita di spettatori, con al centro un tavolo di legno. Sette ore al giorno, sette giorni su sette.

Per circa tre mesi, quasi ininterrottamente, la Abramovic siede davanti a quel tavolo. Di fronte a sé, un’unica sedia vuota, sulla quale qualsiasi spettatore avrebbe potuto avvicendarsi per condividere con lei, di volta in volta, un minuto di silenzio, fissandola dritto negli occhi.

E lei, lei che fino a quel momento rimane ferma, immobile, con gli occhi socchiusi, restituisce lo sguardo all’avventore di turno, incentrando su questi la propria attenzione. Una sola regola, inviolabile, imprescindibile: il divieto di qualsiasi contatto fisico, di infrangere quel silenzio quasi innominabile, quel linguaggio non verbale quasi sacro.

Reazioni e fremiti

Ebbene, chiunque si ritrovi di fronte alla Abramovic è scosso da una reazione, percorso da un fremito, talvolta commuovendosi, talora divertendosi, talaltra perdendosi nel riflesso magnetico di se stesso che quegli occhi scuri rinviano.

Al contempo, da sempre sostenitrice della forza espressiva del corpo, ella si fa invece arte totale attraverso la sua sola presenza, innescando, finanche col più scettico dei fruitori, scambi di energia quasi palpabili, materiali, tangibili.

Occhi curiosi di bambini, angoli della bocca che si incurvano in sorrisi sardonici, sopracciglia che si inclinano perplesse. Circa 750 persone prendono posto di fronte alla Abramovic, ora in palese soggezione, ora in reverenziale silenzio, ora in forte imbarazzo, lasciando puntualmente lei, al contrario, completamente impassibile.

Fino al momento in cui, inaspettatamente, incredibilmente, ventitré anni dopo il loro addio, arriva lui. Ulay, suo ex compagno di vita e di arte, in un sodalizio artistico e amoroso totalizzante, durato ben dodici anni.

Sin da quando, circa 29enni appena, si erano conosciuti per caso in quel di Amsterdam, quel 30 novembre 1974, nel giorno dei loro rispettivi compleanni.

Inquietudine e tormento

Quasi un singolare segno del destino, lo stesso che li avrebbe portati a fare tanta parte della storia dell’arte contemporanea e reso leggendario il loro amore. Fino a farne inquietudine e tormento, nonché protagonista indiscusso delle loro performance artistiche, in ogni parte del mondo.

Commozione, stupore, emozione, imbarazzo. Carezzevole sguardo quello di lui, languido quello di lei. Lacrime calde, lente, vere, sulla spinta delle quali, infrangendo le rigide regole della performance che vietano qualsiasi parola o contatto fisico tra artista e co-creatore, ella protende le mani in avanti, sino a toccare quelle di lui.

Un momento di intensa verità dell’opera, nella quale lui e lei, l’uomo e l’artista, l’uomo e la donna si identificano totalmente, simbioticamente, finanche a dispetto e a superamento di qualsiasi autobiografismo.

E così, 750 sguardi dopo, 750 volti dopo, l’impassibilità sperimentata di fronte a 750 anime anonime e grigie deflagra in tutto il pianto di chi, sia pur in mezzo ad una folla che gli fa ressa tutt’intorno, ri-trova quella cui da sempre appartiene.

In due occhi che, in fondo, finanche dopo un silenzio di circa vent’anni, sono sempre gli stessi, parlano sempre la stessa lingua e comunicano una stessa, sola ed unica verità: quella che ci dice che, finanche a dispetto di ogni tempo e di ogni spazio, di ogni confine e di ogni circostanza, di ogni divieto, di ogni ostacolo e di ogni distanza, un sentimento vero, quando è vero, non muore mai.

Ritrovarsi dopo 20 anni

Perché forse, forse l’amore è proprio questo: ritrovarsi dopo vent’anni, seduti allo stesso tavolo, e ri-conoscersi, ri-incontrarsi di nuovo. Di nuovo come la prima volta. Di nuovo come il primo giorno. Di nuovo come al primo sguardo.

Il tutto, per il frangente brevissimo, eppure intenso, infinito, eterno, di un minuto. Un minuto che riassume, che vale tutto il senso di una vita intera.

L’ Arte è veramente arte quando fa parlare gli umani sentimenti, e questa performance, in tutta la sua spettacolarità e imprevedibilità, vi è riuscita benissimo. Un inno alla vita, agli incontri, agli amori, alla sua mutevolezza, ma altresì alle morti e al dolore che la percorre, dall’inizio alla fine.

Poco tempo dopo, infatti, Ulay scopre di avere un cancro. La Abramovic gli è sopravvissuta, così come faticosamente, coraggiosamente, è sopravvissuta alla fine del loro tormento d’amore, al dolore della perdita, del rimpianto, dell’addio.

Dolore, amore, perdita, addii che costituiscono parte integrante, inscindibili di tutte le opere della Abramovic. Così come, del resto, della vita stessa.

Le parole di Marina Abramovic

Avevo sempre pensato all’arte come a qualcosa espresso mediante determinati media: pittura, scultura, fotografia, scrittura, cinema, musica, architettura. E sì, anche performance. Ma questa performance andava oltre la performance. Questa era vita.

Può essere l’arte isolata dalla vita? Deve esserlo? Se vediamo l’arte come qualcosa di isolato, di sacro e di separato da tutto, significa che non è vita. Mentre l’arte deve essere parte della vita. Deve essere di tutti“. Ecco, queste le parole, questa la grandezza di Marina Abramovic.

Ed ecco perché, al tempo stesso, “The artist is present”: perché l’artista c’è, è presente, esiste. È reale. E perché l’artista, qualsiasi artista, sente sempre. Sempre e comunque, per antonomasia, in maniera imprescindibile.

Con un’intensità, con un trasporto, con una vulnerabilità, con una forza, con una passione, che è davvero la sua arte migliore. E forse, quella di ognuno di noi. La stessa che ci spinge, ogni giorno, a sentire, ad esistere, a fare, a creare. Più arte, più sentimenti, più amore. Più vita.

Serena Fierro

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