Goleman, il Samurai e il maestro Zen

Redazione
Goleman, il Samurai e il maestro Zen

Un giorno, un samurai decise di sfidare un maestro Zen chiedendogli la definizione del paradiso e dell’inferno. “Non sei altro che un villano”, si sentì dire: “Non posso perdere il mio tempo con te”. Disonorato, il samurai sfoderò la spada e disse: “Potrei ucciderti per la tua impertinenza”. Con calma il maestro replicò: “Ecco, questo è l’inferno”. Ammettendo la sua colpa, il samurai rinfoderò l’arma, ringraziò per la lezione e sentì l’altro dire: “Ecco, questo è il paradiso”.

L’antica leggenda giapponese è raccontata dallo psicologo americano Daniel Goleman nel libro Intelligenza emotiva. Scritto nel 1995 è diventato presto un cult in tutto il mondo. Il libro, infatti, ha avuto il merito di porre la nostra attenzione su un’intelligenza nuova. Un’intelligenza diversa da quella astratta fornita dai test del QI e che a differenza di quest’ultima è strettamente legata alla nostra felicità e al successo.

Non è un caso che oggi il lavoro dello psicologo due volte nominato al Pulitzer sia riconosciuto come punto di riferimento nella letteratura aziendale, nel campo delle risorse umane e nella Pedagogia.

La base dell’intelligenza emotiva: “conosci te stesso”

A metà strada tra un saggio e un manuale, l’opera di Goleman ci insegna a portare l’intelligenza nella sfera dell’emozione, a tenere a freno i nostri impulsi e a gestire senza sbalzi le relazioni con gli altri. Il lavoro di Goleman parte dalle basi della filosofia occidentale: il “conosci te stesso” e l’Etica Nicomachea di Aristotele.

Il modo che abbiamo di vivere le emozioni non è immutabile. Possiamo migliorarlo seguendo insegnamenti precisi, anche al lavoro, dove spesso le emozioni sono silenziate per non interferire con i compiti assegnati.

QI vs Intelligenza emotiva

Secondo Goleman, il QI e l’intelligenza emotiva “non sono competenze opposte, ma solo separate”. Il primo tipo d’intelligenza non è per forza collegato al raggiungimento della nostra felicità o del successo. Allora perché dargli così tanta importanza facendo dei test ad hoc? Perché piuttosto, si chiede Goleman, non compilarne uno per determinare la nostra intelligenza emotiva? Aspirare a un alto quoziente in questa intelligenza significa voler essere “socialmente equilibrati, espansivi, allegri, non soggetti a paure e con una spiccata capacità di dedicarsi alle altre persone”.

Le cinque abilità che formano la nostra intelligenza emotiva

Al primo posto, Goleman mette l’autoconsapevolezza. La definisce così: “La costante attenzione ai propri stati interiori“. Un’attenzione simile a quella che per Freud “si libra imparziale”, e una premessa indispensabile per qualsiasi percorso psicanalitico. Attraverso i sensi percepiamo tantissimo del mondo esterno, ma pochissimo di quel materiale viene elaborato in modo approfondito e consapevole. Questo porta spesso a sentirci rassegnati o sopraffatti: persone che semplicemente non riescono a interagire con le proprie emozioni.

Il controllo. Si tratta in parole semplici di resistere alle tempeste emotive. Goleman non è interessato all’aspetto teorico dell’intelligenza emotiva, ma a quello pratico. Per questo elenca numerose situazioni in cui ci siamo trovati tutti almeno una volta e dove è stato difficile vedere una via d’uscita. Uno dei suoi consigli più interessanti, tra le “strategie per tirarsi su dalla malinconia”, è quello del reinquadramento cognitivo: il cercare di considerare la stessa situazione ma in modo diverso, facendo un passo indietro e vedendo la fine di una relazione, ad esempio, sotto una luce positiva.

La motivazione. È lei il “motore” dell’intelligenza emotiva. Perché l’entusiasmo, soprattutto nell’ambiente di lavoro, aumenta la capacità di pensare in modo dinamico, permette di affrontare compiti più complessi e semplifica la risoluzione dei problemi.

L’empatia. Un’abilità che conosciamo tutti ma che non è semplice da praticare. Riconoscere le emozioni altrui è possibile soltanto dopo aver lavorato sulle proprie. È una meta-comunicazione che si svolge con i gesti e quasi mai con le parole, ed è fondamentale sia nell’educazione dei figli che sul luogo di lavoro. Se gli altri sanno di poter contare sulla nostra comprensione avviene una “sintonizzazione“. Attenzione però a differenziare: l’empatia non è il “farsi carico” dei sentimenti altrui. Solo riconoscendoli come diversi dai nostri si possono accogliere e fare propri. Come spiega in questa conferenza TED, incentrata sulla compassione.

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