Furbetti della cig, “ero in cassa ma l’azienda mi ha chiesto di lavorare. Pagato dall’Inps”

Redazione
Furbetti della cig, “ero in cassa ma l’azienda mi ha chiesto di lavorare. Pagato dall’Inps”

Furbetti della cig, “ero in cassa ma l’azienda mi ha chiesto di lavorare. Pagato dall’Inps”. Luca, dipendente di una delle più importanti agenzie per il lavoro attive in Italia, era in Fis: “Ma non potevo rifiutarmi di lavorare, dopo la richiesta diretta di un superiore. Alla terza volta che lo fai, sai che l’azienda ne terrà conto quando si parlerà di contratti. Alla fine non stacchi mai”.

Simone, cuoco in un ristorante di Verona: “Il proprietario ci paga per le 20 ore a settimana che dichiara, ma io ne sto lavorando anche 60. Il resto arriva dall’Inps”.

Andrea Lovisetto, segretario locale della Filcams Cgil: “Centinaia di segnalazioni ma le persone non denunciano. Basta guardare il fatturato: come può essere uguale a prima se sulla carta la metà dei dipendenti erano in cassa?”

“Da marzo a maggio avrei dovuto fare sei settimane di cassa integrazione, ma in realtà ho lavorato tutti i giorni, anche se a stipendio ridotto”. Perché l’ha versato l’Inps. Luca, nome di fantasia, è dipendente di una delle più importanti agenzie per il lavoro che operano in Italia.

E chiede il totale anonimato per denunciare una situazione molto diffusa in questi mesi, ma che fatica a emergere per il ricatto implicito dei datori di lavoro: “Non ho mai detto ‘No, oggi sono in cassa’ perché non ero nelle condizioni di poterlo fare.

Potete immaginare cosa significhi rifiutarsi di partecipare a una chiamata di lavoro dopo la richiesta diretta di un superiore. Alla terza volta che lo fai, in modo corretto dato che saresti in cassa, diventa un elemento di cui l’azienda terrà conto quando si parlerà di contratti.

E allora ci sei la prima, la seconda, la terza volta, e così alla fine non stacchi mai, lavori come sempre”. In questo modo però l’azienda sta usando soldi pubblici per pagare i lavoratori: “Una frode allo Stato”, commenta Andrea Lovisetto, segretario generale della Filcams Cgil Verona.

L’ampio ricorso al FIS

L’azienda di Luca ha fatto ampio ricorso al Fis, il Fondo di integrazione salariale, che permette di usufruire dell’ammortizzatore sociale per un massimo di nove settimane non continuative. Questi strumenti, se da un lato hanno evitato migliaia di licenziamenti, dall’altro hanno mostrato limiti nei tempi di erogazione e sollevato dubbi sull’utilizzo.

Secondo un rapporto dell’Ufficio parlamentare di bilancio un quarto delle ore di cassa integrazione usate in questi mesi sono andate ad aziende che non hanno avuto nessuna riduzione di fatturato. Non a caso il governo, nel decreto Agosto, intende mettere paletti chiedendo alle imprese in quella situazione di contribuire versando il 18% della retribuzione che sarebbe spettata al lavoratore per le ore di lavoro non prestate.

Per Luca quello che è certo è che il lavoro per lui e i suoi colleghi non è affatto diminuito. Anzi: “Tra videochiamate e webinar ho passato molto più tempo al computer, e la difficile gestione dei contratti nel periodo dell’emergenza ha aumentato il carico di lavoro”.

Rimaste sulla carta

Così le sei settimane di cig, e le altre due previste per giugno e luglio, sono rimaste solo sulla carta. “Per l’azienda dovevamo lavorare perché eravamo chiusi in casa con il lockdown e non avevamo nulla da fare. Ma intanto io ho guadagnato molto meno”. Leggi di Gossip

E soprattutto – leggendo la sua storia dal punto di vista delle casse dello Stato – a pagarlo non è stata l’azienda. A pagare è stato l’istituto di previdenza. Si pensi che finora per la cig Covid sono stati spesi 16,5 miliardi. Coperti a suon di maggior deficit chiesto dal governo e approvato dal Parlamento.

Risorse aggiuntive rispetto a quelle già necessarie per garantire gli ammortizzatori ordinari alle aziende in crisi già prima dell’emergenza coronavirus. Continua a leggere sul Il fatto quotidiano

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